Epicuro é stato spesso definito ateo. Da un certo punto di vista, senz'altro, non é una definizione scorretta, ma tuttavia può essere fraintesa. Vi sono infatti due diverse forme di ateismo: una, più radicale, secondo la quale Dio non esiste proprio, e la stessa parola "ateismo" sembra dar ragione ad essa, in quanto in greco theòs significa divinità, ma con l' alfa privativa davanti diventa "senza dio": Giacomo Leopardi é uno dei principali esponenti di questo ateismo. Tuttavia vi é anche una forma di ateismo più sfumata e meno radicale, nella quale si identifica appunto Epicuro: la divinità esiste, dice Epicuro, e a dimostrarlo é il cosiddetto "consensus omnium": se tutti gli uomini sono convinti che essa esista, allora perchè mai non dovrebbe? Ma non é la sola dimostrazione di cui egli si serve: arriva infatti a dire che gli uomini hanno spesso apparizioni di divinità nei loro sogni e di conseguenza se non esistessero, come farebbero ad apparire nei sogni? Questa dimostrazione, che peraltro porta Epicuro a sostenere l' antropomorfismo della divinità, é piuttosto discutibile, in quanto non é assolutamente vero che si sogni solo ciò che esiste: nei nostri sogni possono per esempio apparire draghi o fantasmi, senza che essi effettivamente esistano. Dunque Epicuro é convinto che gli dei esistano; ma allora non é ateo? L' ateismo epicureo, che abbiamo detto essere in un certo senso "sfumato" e meno radicale, consiste nell' affermare che gli dei esistano, ma che non possano o non vogliano intervenire nel mondo umano; un' argomentazione epicurea a favore dell' impossibilità divina di intervenire nelle vicende umane é quella riguardante il male nel mondo: se gli dei si occupassero davvero del mondo, potrebbe forse esistere il male? Senz'altro no, e visto che però il male é presente nel mondo, Epicuro ne fa derivare l' impossibilità degli dei di intervenire nel nostro mondo: a rigore é meglio riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle vicende umane piuttosto che arrivare a disprezzarli; se infatti gli dei potessero intervenire nel nostro mondo, perchè mai non dovrebbero eliminare il male? Le risposte possibili hanno la forma di una disgiunzione completa: o perchè non possono o perchè non vogliono o perchè nè possono nè vogliono. Ma se non possono gli dei allora sono impotenti; se non vogliono, invece, sono invidiosi degli uomini, e ciò equivale a dire che esse non sono divinità buone. Ma impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità: Epicuro arriva quindi a dire che gli dei sono totalmente indifferenti all' uomo. Tuttavia Epicuro si serve di un' altra argomentazione, di derivazione aristotelica: peculiarità degli dei é quella di essere beati: se si occupassero del nostro mondo, essi perderebbero automaticamente la loro beatitudine, perchè si prenderebbero cura di una realtà nettamente inferiore alla loro: sarebbe un' autodiminuzione che comporterebbe lo svanimento della beatitudine: Aristotele diceva che la divinità per essere davvero beata deve svolgere l' attività più elevata, vale a dire pensare; ma se davvero vuole essere beata deve pensare a qualcosa di sublime e la cosa più sublime é la divinità stessa: quindi il dio aristotelico non faceva altro che pensare a se stesso. In un certo senso é così anche per gli dei epicurei, che tuttavia presentano una grande differenza rispetto alla divinità aristotelica: Epicuro é un materialista e non ammette l' esistenza di nulla che non sia materiale: ne consegue che anche le divinità sono materiali, mentre il dio aristotelico é forma pura, assolutamente privo di materia. Ma gli dei epicurei, allora, visto che come l' uomo sono corporei, dovranno pur stare da qualche parte; Epicuro colloca gli dei nei cosiddetti "intermundia", ossia quegli spazi che intercorrono tra un mondo e l' altro: da notare che la concezione del mondo di Epicuro avrà un discreto successo e sarà ripresa, per esempio, dall' Ariosto per la creazione del mondo dell' Orlando Furioso, un mondo dove i personaggi si muovono costantemente alla ricerca di qualcosa. Riepilogando, se gli dei sono materiali e antropomorfi, in che cosa differiscono dall' uomo? Essi sono eterni e di conseguenza hanno felicità eterna. Ciò non significa per Epicuro che l' uomo sia inferiore ad essi: anche l' uomo può raggiungere una felicità pari a quella divina se riesce a liberarsi dal dolore, dalle ansie e dalle paure, con l' unica differenza che la sua felicità sarà temporale: ma in fin dei conti l' uomo può vivere come un dio, ma non in eterno: ma é lo stesso, perchè se io mortale vivo felicemente per tutta la vita e poi muoio, non mi interessa affatto che le divinità siano felici eternamente, perchè tanto io non ci sono più. Apparentemente quindi la divinità pare che non abbia nessun influsso sugli uomini e sulle loro vicende, ma non é così: la divinità é il modello supremo per gli uomini, un modello che va assolutamente imitato perchè può portare alla felicità assoluta . Anche qui si possono scorgere parecchie analogie con la divinità aristotelica, il "primo motore", vale a dire quel motore che dava l' impulso a tutto il resto: tutti i pianeti e le stelle cercavano di imitare l' eternità divina, secondo Aristotele, ciascuno secondo la propria natura; allo stesso modo l' uomo cerca di imitare per Epicuro la felicità divina: imitare la divinità significa riuscire a raggiungere quella felicità estrema che coincide con l' eliminazione di timori e ansie che Epicuro reputa infondati; é l' uomo stesso infatti che se li crea stupidamente. Teniamo sempre presente che le filosofie ellenistiche sono essenzialmente filosofie etiche e quindi anche la spiegazione epicurea a riguardo della divinità ha risvolti etici: essa ha la funzione di liberare gli uomini da quegli atteggiamenti di sottomissione e di ansia nei confronti della divinità, che tendono a degenerare nella superstizione; la divinità non interferisce con il nostro mondo ed é inutile pregarla, come già diceva Aristotele; da qui Epicuro arriva a dire che fenomeni atmosferici come i fulmini o i tuoni non possono essere provocati dalla divinità adirata verso gli uomini, ma sono puramente eventi fisici, che possono essere spiegati razionalmente e addirittura possono avere più di una spiegazione: ciò che conta é che la divinità non ha nulla a che fare con essi. Epicuro riesce così a convincere gli uomini che non bisogna avere timore del divino e ancora una volta la sua filosofia può essere paragonata alla quiete del mare dopo la tempesta, in greco "galenismòs". Chiaramente Epicuro non crede in una vita dopo la morte, cosa di cui invece era convinto Platone, in quanto la nostra anima, come ogni altra realtà, é un composto di atomi destinato a deteriorarsi; anche Aristotele era del parere che non vi fosse una vita dopo la morte e che l' anima morisse con il corpo. Senz' altro, per via del suo ateismo "sfumato", Epicuro fu uno dei filosofi più censurati dalla Chiesa, sebbene già nella Roma pagana avesse incontrato parecchie ostilità: Cicerone stesso era un accanito nemico degli epicurei, ma non tanto per motivazioni religiose, quanto piuttosto politiche: caratteristica dell' epicureismo era infatti l' apoliticità, cosa che andava contro agli ideali di Cicerone. Soprattutto nel Medioevo Epicuro sarà visto come il nemico numero uno della Chiesa, che vedeva in lui un rivale insidiosissimo. Solo Clemente Alessandrino, pur essendoi cristiano, lo apprezzerà e dirà che lui e gli stessi atei pagani, se non avevano conosciuto la verità, avevano almeno sospettato l' errore che circonda gli dei del paganesimo e, in tal modo, avevano posto un germe, anche se soltanto negativo, che poteva condurre alla verità. Dante Alighieri stesso, che venne a conoscenza delle dottrine di Epicuro attraverso gli scritti filosofici di Cicerone, condannerà gli epicurei collocandoli "tra l' anime più nere" e definendoli coloro "che l' anima col corpo morta fanno"; a rigore si potrebbero quindi condannare anche gli aristotelici, che al pari di Epicuro ritenevano l' anima mortale e appare evidente che la filosofia più vicina al mondo cristiano é quella di Platone, che ammette l' esistenza di un mondo metafisico e sostiene l' immortalità dell' anima. Quella dell' immortalità dell' anima é una delle tematiche fondamentali del cristianesimo ed é quindi evidente che Dante Alighieri, da buon cristiano, sia indegnato di fronte agli epicurei e alla loro convinzione sulla mortalità dell' anima, che egli nel Convivio definisce "intra tutte le bestialitadi ... stoltissima, vilissima e dannosissima". Per tutto il cristianesimo Epicuro sarà famoso proprio per aver negato la mortalità dell' anima, ancora più che per quanto detto sulla divinità e sarà infatti conosciuto come il filosofo "negante la etternità delle anime", come dice Boccaccio nel Decameron. Epicuro, dal momento che visse prima della rivelazione, non può essere detto propriamente eretico ma Dante non esita a citarlo come primo assertore di un' opinione rimasta viva ed operante anche in seno alla civiltà cristiana. Va però ricordato che il cristianesimo, così indegnato nei confronti di Epicuro e della sua convinzione dell' immortalità dell' anima, nei primi tempi in cui esisteva non prometteva affatto l' immortalità dell' anima, ma solo la resurrezione dei corpi; i cristiani erano convinti che la resurrezione del corpo avvenisse in breve tempo, e non a caso il cimitero era il luogo del sonno, come suggerisce l' etimologia della parola: solo che notarono che il tempo della resurrezione corporale non arrivava mai e si vedevano costretti a rimandarlo in continuazione: arrivarono così ad attingere dalle dottrine di Platone presenti soprattutto nel Fedone, nelle quali veniva razionalmente dimostrata l' immortalità dell' anima: così pure per i cristiani l' anima divenne immortale. Pare quindi che Epicuro abbia la meglio sul cristianesimo perchè almeno rimane costante nelle sue convinzioni, senza apportare modifiche così radicali come quelle dei cristiani. L' epicureismo verrà poi di nuovo apprezzato nel Rinascimento, in particolare da Lorenzo Valla, che però più che dalla teologia, sarà attratto dall' edonismo epicureo e scriverà anche un trattato a riguardo, intitolato "De voluptate ac de vero bono", formato da tre libri.