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MARX E EPICURO

DUE MATERIALISTI A COLLOQUIO

a cura di Diego Fusaro

La filosofia, finchè una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: ‘empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi’. La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo - ‘detto francamente, io odio tutti gli dèi’ - è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana .” (Marx, “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”)


La gioventù di Marx fu costellata di bravate che mettono in luce lo spirito ribelle del suo animo: condannato per ubriachezza e schiamazzi notturni, trascorse perfino un giorno in prigione e, successivamente, in un duello fra studenti, riportò una ferita al sopracciglio; a ciò si devono aggiungere le avventure amorose e, in particolare, il fidanzamento segreto con Jenny von Westphalen. Nonostante la turbolenza del suo animo, egli seppe dedicarsi con passione agli studi classici e alle lezioni di diritto, finchè, nel 1841, conseguì il dottorato con una tesi sulla “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”. Le motivazioni ideologiche e filosofiche che inducono il giovane Marx ad interessarsi delle filosofie di Democrito e di Epicuro vanno rintracciate nella tematica propria della Sinistra hegeliana, che si opponeva fermamente alla condanna, espressa da Hegel, di Democrito e dell’epicureismo, e tendeva a mettere in luce soprattutto i motivi illuministici che si potevano ravvisare nel materialismo democriteo e nell’ “ateismo” sui generis di Epicuro. Tuttavia, il discorso che Marx conduce nella sua dissertazione dottorale, rimane ancora nell’alveo dell’idealismo e dell’hegelismo (nel testo è centrale il termine - di forte sapore hegeliano - “autocoscienza”) e la suggestione della posizione filosofica di Bruno Bauer è ancora molto forte. Così al “materialismo passivo” di Democrito Marx opporrà il “principio energetico” che anima invece il materialismo di Epicuro, anche per lui, come per Hegel, filosofo dell’ “ astratta autocoscienza individuale ” (in contrapposizione all’astratta coscienza universale propria dello stoicismo). Ma, d’accordo in questo con i giovani della Sinistra hegeliana, egli riabilita il filosofo dal giudizio negativo su di lui formulato da Hegel e in Epicuro vede colui che soccorre (in greco epikouroV significa appunto “soccorritore”) l’uomo e la libertà spirituale, proprio come, ancora idealisticamente, la Sinistra hegeliana intendeva difenderla dal panlogismo di Hegel, accusato di sommergere l’uomo e il suo spirito nella razionalità totale dell’Idea. Tuttavia, già nella dissertazione dottorale, pur nell’impostazione ancora idealistica della trattazione, traspaiono gli elementi ideologici e filosofici portanti di un discorso che si farà sempre più impegnato e sicuro man mano che Marx si libererà dai vincoli di quella “miseria tedesca” che tanta influenza negativa ebbe nello sviluppo della cultura e del progresso in Germania. Così, il discorso epicureo sull’ ataraxia non è svolto senza riserve, poiché per Marx finisce con l’isolare l’uomo da quel mondo nel quale, nella prospettiva marxiana, l’uomo è chiamato ad integrarsi in tutto e per tutto: e così, nella parte finale della sua tesi, Marx perviene alla conclusione che “ l'assolutezza e libertà dell'autocoscienza è il principio della filosofia epicurea, anche se l'autocoscienza è concepita solo sotto l'aspetto dell'individuale ”. A partire dal titolo, “Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”, si evince facilmente come l’attenzione del giovane Marx sia interamente dedicata alle tesi materialistiche, a cui si era già avvicinato abbracciando il movimento della Sinistra hegeliana. In particolare, egli opera un arduo raffronto tra l’epoca storica successiva ai grandi sistemi di Platone e Aristotele con quella successiva alle grandi elaborazioni di Kant e, soprattutto, di Hegel. Il tema cardinale che affiora da questo confronto può essere risolto nell’indagine se sia possibile un nuovo cominciamento filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi sistematiche. Marx sostiene, a tal proposito, che è proprio in questi momenti che diventa possibile la ripresa di contatto della filosofia con la realtà, la sua realizzazione nel mondo esterno. Se le filosofie fiorite con Platone e Aristotele facevano poca presa sulla realtà e tendevano a scivolare in una riflessione eccessivamente sganciata da essa, è con le filosofie ellenistiche che l’attenzione si è nuovamente soffermata sulla realtà materiale di tutti i giorni e l'indagine metafisica ha ceduto il passo all’istanza etica: ma, ciononostante, è invalsa, nel modo di pensare comune, la convinzione che con Platone e Aristotele la filosofia greca abbia detto tutto ciò che aveva da dire, trascurando però, ad esempio, l’importanza giocata dalle correnti ellenistiche nel permettere il trasferimento della filosofia dalla Grecia a Roma: “ con Aristotele sembra che la storia della filosofia greca abbia raggiunto una fine[…]. Gli Stoici, gli Epicurei e gli Scettici vengono considerati quasi come un’aggiunta fuori luogo, che non produce alcuna connessione con queste straordinarie premesse. […] Ma non sono essi i prototipi dello spirito romano? La forma in cui la Grecia migra verso Roma? ”. Questa tematica è stata messa brillantemente in luce, nella seconda metà del Novecento, anche dal pensatore di ispirazione cattolica Gustavo Bontadini, il quale, in un’opera significativamente intitolata “Metafisica e deellenizzazione”, proponeva un ritorno alla metafisica, in contrapposizione alle tendenze più materialistiche proprie delle filosofie ellenistiche. Frantumando con l’arma terribile della dialettica l’unità del reale, quale era stata colta nella sua enigmatica interezza dai pensatori presocratici, la speculazione socratico-platonica aveva aperto, fra mondo sensibile e mondo trascendente, una frattura che l’aristotelismo aveva finito col riproporre. Ora, i filosofi ellenistici lasciano alle nuove forme di religiosità misterica il compito di spezzare il silenzio che sembra essere calato tra dèi e mortali e ricercano viatici che possano sorreggere l’uomo nel suo peregrinare terreno attraverso i tortuosi e capricciosi sentieri tracciati dall’inesorabile Tuch : poco interessati alla soluzione dei grandi problemi metafisici (e questo vale soprattutto per l’epicureismo) affrontati con grande passione dai loro immediati predecessori, i pensatori di quest’epoca non aspirano all’impossibile conseguimento di una saggezza che coincida con l’antica sofia limitandosi a identificarla nella fronhsiV , intesa come capacità di discernimento e di decisione, che possa fornire all’uomo una guida sicura dinanzi all’imprevedibile occorrere degli eventi. Pur nelle differenze fra le varie scuole, questo ideale di saggezza finisce con l’essere sostanzialmente comune a tutte le correnti di pensiero dell’età ellenistica, nella misura in cui esso coincide con l’aspirazione all’autosufficienza ( autarkeia ) e alla serenità spirituale, quest’ultima di volta in volta concepita come “imperturbabilità” (l’ ataraxia epicurea), come “impassibilità” (l’ apaqeia degli Stoici) o come “indifferenza” (l’ adiaforia dello scettico Pirrone da Elide). Gli spiccati interessi etici delle filosofie ellenistiche si coniugano poi con un sostanziale agnosticismo verso la sfera metafisica, alle cui categorie concettuali vengono generalmente sostituite quelle materialistiche e immanentistiche che fanno riferimento al mondo della fusiV . E, in analogia con l’era dell’ellenismo, Marx nota come anche con Hegel sembrava che la filosofia fosse giunta all’apice e, al tempo stesso, al suo ultimo stadio: Hegel stesso, con un pizzico di presunzione, proponeva il proprio pensiero come ultima tappa dell’itinerario della filosofia e, insieme, come sintesi di tutte le altre: la sua filosofia era, per usare le sue parole, come la “ nottola di Minerva che spicca il suo volo sul far del crepuscolo ”. Ora, Marx nota che nell’epoca a lui contemporanea (come quella ellenistica), dopo i grandi sistemi di Kant e di Hegel, caratterizzati come quelli di Platone e di Aristotele da un’eccessiva attenzione per il problema metafisico, la filosofia ritorna all’indagine e alla critica della realtà materiale che ci circonda: gli eroi di questa nuova stagione filosofica sono gli esponenti della Sinistra hegeliana, che desumono da Hegel il motto “ciò che è razionale è reale” e si propongono, pertanto, di criticare la realtà presente e di trasformarla in meglio: mostrando l'inadeguatezza della realtà rispetto a ciò che é razionale, la teoria diventa prassi. Questa concezione maturata nell’ambito della Sinistra hegeliana, tuttavia, verrà presto da Marx superata: subentrerà in lui la convinzione che le idee, da sole, non bastino per mutare la realtà; viceversa, si tratta di cambiare la realtà perché mutino anche le idee; esse, infatti, altro non sono se non un prodotto della realtà stessa. A tal proposito, dice Labriola nel suo celebre “Del materialismo storico”: “ le idee non cascano dal cielo […].L'uomo sviluppa, ossia produce se stesso, non come ente genericamente fornito di certi attributi, che si ripetano o si svolgano secondo un ritmo razionale; ma produce e sviluppa se stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche determinate correnti di idee, di opinioni, di credenze, di fantasia, di aspettazioni, di massime ”. Marx, com’egli stesso confessa, non passa indenne dalle ammalianti sirene dell’hegelismo e del suo processo dialettico: tuttavia, si propone di far poggiare la dialettica dov’è giusto che poggi. Non sulla testa, ovvero sulle idee (come era in Hegel), ma sui piedi, ovvero sui fatti materiali: alla dialettica di idee che trova il suo luogo d’azione sulle pagine dei libri, si sostituisce la dialettica materiale che si concretizza sulle piazze come ribaltamento rivoluzionario, come negazione del capitalismo. Proprio su questa concezione si basa il “materialismo storico” marxiano, ovvero come materialismo letto in chiave storica e dialettica. Il materialismo di Feuerbach, da solo, non basta, perché privo di quell’attenzione per la storia e per il soggetto che invece caratterizza l’idealismo hegeliano; nella I delle 11 “Tesi su Feuerbach”, Marx afferma che “ il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell' ‘Essenza del cristianesimo’ egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività ‘rivoluzionaria’, dell'attività pratico-critica ”. A sua volta, però, l’idealismo hegeliano, con il suo impeccabile procedimento dialettico, è inutile se non riferito alla materia: si tratta dunque (ed è quello che Marx si propone di fare con l’elaborazione del “materialismo storico”) di coniugare l’idealismo e il materialismo, desumendo dal primo l’attenzione per la storia, dal secondo la centralità indiscussa della materia. Agli anni della sua tesi di laurea, però, Marx non aveva ancora maturato queste idee: dopo Hegel, egli dice, la filosofia riprende la sua funzione illuministica di critica della realtà, così come, dopo Aristotele, Epicuro, “ il più grande illuminista greco ” , aveva portato fino in fondo la critica della religione, combattuto il fatalismo e rivendicato la libertà dell'autocoscienza umana. Tra gli esponenti della Sinistra hegeliana, spicca la figura di Feuerbach, strenuo propugnatore di un materialismo esasperato e, per alcuni versi, esagerato (come testimonia il suo celebre asserto: “l’uomo è ciò che mangia”). Influenzato dalle riflessioni feuerbachiane, anche se attento conoscitore ed estimatore del sistema hegeliano, Marx rivela, nella tesi di laurea, la sua piena (e momentanea) adesione all’atteggiamento della Sinistra hegeliana e al suo materialismo: tant’è che non si chiede nemmeno se sia preferibile l’idealismo di stampo hegeliano o il materialismo, bensì ci pone direttamente di fronte alla scelta tra il materialismo elaborato da Democrito e quello proprio di Epicuro. Si tratta di un raffronto che, fin dalle prime battute, pende in favore di Epicuro: Marx, con un linguaggio brillante e scintillante di metafore e citazioni dotte, che rivelano una profonda conoscenza dell’argomento, non esita a leggere nel materialismo epicureo la più alta esaltazione della dignità umana e della sua liberazione da ogni antica superstizione. La prima parte della tesi è incentrata su una minuziosa carrellata di citazioni classiche che mettono a confronto le due filosofie materialistiche: emerge chiaramente come, fin dall’antichità, la fisica epicurea sia sempre stata intesa come una riproposizione, peraltro rigurgitante di errori, della fisica democritea. Così, Cicerone, nel “De finibus malorum et bonorum”, poteva affermare con tono sprezzante che “ [Epicurus] in physicis, quibus maxime gloriatur, primum totus est alienus ” e che, laddove si discosta dal maestro, finisce per commettere errori grossolani. Un giudizio del tutto simile proviene dall’autorevole voce di Plutarco: “ Epicuro, per quel che riguarda la filosofia greca, si è appropriato di tutto ciò che era sbagliato, tralasciando ogni cosa che fosse vera ”. L’avversione di Plutarco, platonico dichiarato, nei confronti di Epicuro può essere del resto interamente racchiusa nel titolo del suo scritto “Non posse suaviter vivi secundum Epicurum”, con cui proclama l’incompatibilità della vita felice con la precettistica epicurea. E, nota Marx, anche un filosofo di tutto rispetto come Leibniz si schierò apertamente in difesa di Democrito: “ di quest’ uomo eccelso (Democrito) non sappiamo quasi nulla, all’infuori di ciò che da lui ha mutuato Epicuro, e Epicuro non era certo capace di prendere sempre il meglio ” (Lettera a Mr. Des Maizeaux). Che Epicuro abbia ripreso, per lo più, la sua concezione fisica da Democrito è cosa accertata: egli ritiene che un numero infinito di corpi indivisibili, che si muovono entro il vuoto infinito, sia ciò che può spiegare il mondo fisico quale appare ai nostri sensi. Egli inferisce questa tesi a partire dall'esperienza, la quale ci attesta che nulla può nascere dal nulla e nulla può finire nel nulla, altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col tempo: di qui si giunge alla conclusione che l'universo é sempre stato e sempre sarà quale é ora. D'altra parte, é evidente ai sensi che i corpi esistono e sono dotati di movimento, sicchè possiamo inferirne l'esistenza del vuoto, che non é di per sé evidente e contro la quale aveva già dimostrato Melisso. Infatti se il vuoto non esiste non può esistere il movimento; ma il movimento esiste, e tutti possiamo appurarlo empiricamente, dunque esiste anche per forza il vuoto. Marx stesso riconosce come fondate le accuse di plagio che la tradizione muoveva ad Epicuro, in quanto la nozione di atomo o di vuoto è indubbiamente la stessa per i due filosofi; ciononostante, dice Marx, sussiste un enigmatico rompicapo, in quanto, seppure la scienza a cui fan riferimento i due pensatori materialisti sia la stessa, essi si collocano su posizioni diametralmente opposte per quel che riguarda la concezione della verità, l’applicazione della scienza e, in ultima analisi, il rapporto fra pensiero e realtà. Democrito afferma che ad esistere oggettivamente sono solo, propriamente, gli atomi e il vuoto, mentre tutto il resto è mera parvenza soggettiva; così, il caldo e il freddo sono, nella prospettiva democritea, pure e semplici impressioni del soggetto, che esulano da ogni forma di oggettività: in altri termini, essi sono le sensazioni che sul soggetto producono gli atomi che entrano in contatto con esso. Se la posizione democritea, sotto questo profilo, appare scettica, in quanto mette tra parentesi l’esistenza oggettiva di buona parte di ciò che ci circonda, Epicuro dice espressamente che “ l’uomo saggio assume una posizione dogmatica, non scettica ” poiché “ tutti i sensi sono araldi della verità ”: dunque, per Democrito i sensi sono meramente soggettivi, per Epicuro sono uno specchio oggettivo che riflette la realtà. Questa divergenza di prospettive è attestata anche da Cicerone che, nel “De finibus malorum et bonorum”, asserisce che “ a Democrito il sole appare enorme, perché egli è uno scienziato dotato di ottime conoscenze geometriche; ad Epicuro esso sembra largo due piedi o poco più, perché egli si pronuncia su quanto largo sembri ”. Inoltre, questa marcata attenzione epicurea per l’apparenza e le sensazioni affiora anche nel momento in cui egli indaga sulle diverse proprietà che caratterizzano gli atomi e che li differenziano tra loro; Marx nota che Democrito, invece, considera le diverse proprietà atomiche solo “ in relazione alla formazione delle differenze nel mondo delle apparenze ”, mai in relazione agli atomi stessi. Da questa concezione antitetica della realtà, scaturisce anche la diversissima condotta di vita dei due filosofi: tutto assorbito dalla ricerca del sapere, Democrito si è lasciato accecare da essa e non ha saputo cogliere la vita nel suo scorrere incessante; egli, travagliato da una brama di sapere che non gli dà riposo, ma al tempo stesso insoddisfatto della ricerca filosofica, gira per il mondo, arrivando nelle terre più remote, senza darsi un momento di quiete. Epicuro, invece, meno attento alla conoscenza fine a se stessa, si è riservato una vita appartata, cercando di goderla pienamente in ogni istante, secondo quello che sarà il celebre motto oraziano del “ carpe diem ”; la conoscenza stessa, del resto, è per Epicuro subordinata, come per tutti gli altri filosofi dell’età ellenistica, alla vita: la conoscenza, si potrebbe quasi affermare, in modo volutamente forzato, sarebbe per Epicuro del tutto inutile se non consentisse all’uomo di vivere meglio, liberandolo dalle angosce che lo travagliano. Conoscere la realtà serve, per Epicuro, a dissipare i timori che da sempre si annidano nell’animo umano e, compiuta questa operazione, a poter vivere secondo quella pacata asucia che aleggia negli idilli teocritei. Per Epicuro, infatti, la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica e pratica, che può essere brillantemente sintetizzata nelle stesse parole del filosofo edonista: “ vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana ”; una tesi, per alcuni versi, molto affine a quella che sarà propria di Marx: sulla valenza pratica del pensiero filosofico, egli scrive nella II tesi su Feuerbach: “ la disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica ”. In questo senso, una delle metafore preferite da Epicuro per indicare l'obiettivo della vita filosofica é il galhnismoV , la quiete del mare dopo la tempesta, ma questa situazione di quiete é continuamente minacciata e impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano ansie e timori : l' uomo che vive con animo sereno sarà da Lucrezio paragonato a coloro che , al sicuro sulla terraferma, osservano distaccati il mare in tempesta e l' altrui pericolo. La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti: proprio in vista di tale scopo essa deve preliminarmente mostrare che cosa si può realmente conoscere e come lo si può conoscere. Ma ciò che maggiormente allontana Epicuro dal suo “maestro” Democrito è la negazione di quel rigido e, come dice Marx, “ cieco ” meccanicismo a cui pervengono tutte le filosofie (compresa quella democritea) che propugnano il materialismo: i corpi che costituiscono l’universo sono suscettibili di disgregazione, ma poichè nulla scompare nel nulla, ciò significa che essi sono composti di entità che permangono indistruttibili: queste entità sono gli atomi. Gli atomi sono di forme innumerevoli, ma non sono dotati di qualità come colore, temperatura e così via. Per Democrito gli atomi, probabilmente, non avevano peso, nè esisteva una direzione privilegiata del loro movimento. In base a ciò, secondo Democrito, tutto avviene meccanicamente: ogni singola azione umana non si sottrae a questa terribile condanna. Epicuro, invece, attribuisce peso agli atomi, forse in base alla tesi che un corpo privo di peso non é in grado di muoversi. Nell'universo infinito non ci sono un centro, un alto, un basso assoluti: ma per Epicuro si può parlare di un alto e basso relativi ed é appunto verso il basso che gli atomi si muovono grazie al loro peso. Ma se gli atomi si muovono verso il basso verso linee parallele (come credeva Democrito), come é possibile la formazione di corpi e, in ultima istanza, del mondo stesso? In queste condizioni, infatti, gli atomi non potrebbero incontrarsi e dare luogo ad aggregazioni. E proprio in virtù di questa evidente aporia a cui Democrito si trovava dinanzi, egli dovette ammettere l'eternità del tempo: grazie a questa ammissione, infatti, scavalcava il problema della formazione del mondo interpretandolo come eterno. I testi conservatici di Epicuro, invece, non rispondono a questo interrogativo, ma, secondo Lucrezio, Epicuro avrebbe introdotto a questo proposito la dottrina del “clinamen” o declinazione (in greco paregklisiV ). Attraverso di essa, egli attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso: in questo modo, grazie a tali deviazioni casuali, gli atomi possono scontrarsi e dare origine al mondo. In tal modo, gli eventi, e in particolare le aggregazioni tra atomi che danno luogo alla formazione dei corpi composti, perdono ogni carattere di necessità, ed è proprio questo che sta a cuore ad Epicuro: “ piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità ” (Lettera a Meneceo). Si tratta, nota Marx, di una vera e propria correzione del meccanicismo, in quanto viene introdotta un’imprevedibile casualità che sfugge ad ogni determinazione: inoltre, attraverso la dottrina del clinamen, viene lasciato un margine di libertà all’agire umano, cosicchè ogni nostra azione, in quanto non determinabile prima di essere effettivamente compiuta, è il frutto di una libera scelta del nostro intelletto. Soprattutto per via della teoria del clinamen gli avversari di Epicuro potevano rinfacciargli non solo di aver attinto a piene mani dalla fisica di Democrito, ma di averla anche viziata di una sfilza di errori inammissibili: come si può, infatti, accettare una fisica fondata sulla casualità e sulla deviazione imprevedibile degli atomi? Probabilmente, Epicuro era pienamente a conoscenza di questa aporia interna al suo sistema, ma non intendeva per nulla al mondo rinunciare al primato dell’etica: e, con l’ammissione di un meccanicismo rigido e deterministico come quello democriteo, una filosofia etica, che si proponga cioè di dare suggerimenti sul comportamento da adottare, perderebbe ogni significato. Che senso può avere, infatti, che un filosofo mi dica come comportarmi se poi, essendo tutto meccanicisticamente determinato, non ho libertà di scelta? Epicuro rinuncia alla perfezione che informava la fisica democritea, in cui tutto era rigorosamente determinato in modo meccanico, ma con quest’operazione salva la validità dell’insegnamento etico e, di conseguenza, del senso intero della sua filosofia. Di fronte a questo paradosso si troveranno invece gli Stoici e Spinoza: essi, da un lato predicano l’assolutà necessità imperante nel cosmo, e, dall’altro lato, danno una piega spiccatamente etica al loro discorso. Si può anche fare un breve cenno a come Epicuro, con la dottrina del clinamen, abbia prospettato un’immagine sfumata del mondo, in cui trovano spazio anche l’imprevedibilità e l’indeterminazione, quasi come se fosse impossibile determinare ogni cosa: un’immagine che risulta incredibilmente vicina a quella avanzata, nel Novecento, dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il quale ha affermato, nella formulazione del suo celebre principio di indeterminazione che “è impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità di moto di una particella subatomica. Tanto più esattamente conosciamo la posizione, tanto meno sicuri siamo della quantità di moto, e viceversa”. Ritornando alla tesi di Marx, da essa traspare una fortissima attenzione per la teoria del clinamen e per la libertà che, con essa, viene riconosciuta all’agire umano: nella maturità del suo pensiero, Marx arriverà a sostenere che ogni nostra azione è determinata storicamente dalle condizioni socio-economiche in cui viviamo, negando in tal senso ogni libertà all’agire dell’uomo. Tuttavia, come lui stesso preciserà, l’uomo di cui sta parlando è l’uomo del passato, dominato dall’economia e dalla materia; l’uomo del futuro, ovvero l’uomo che nascerà dalla rivoluzione comunista e sulle ceneri del capitalismo ormai tramontato, assurgerà a vero e proprio dominatore della storia, riconoquistandosi quella libertà che per tutto il corso della storia gli è stata brutalmente negata. Da ciò si capisce benissimo come Marx potesse nutrire grande simpatia per una concezione come quella di Epicuro, la quale interpretava il mondo in modo materialistico ma non per questo negava del tutto la libertà all’agire umano. E del resto, se il pensatore tedesco non avesse creduto, entro qualche misura, che l’uomo gode di qualche libertà nell’agire, non si spiegherebbe affatto perché nel pensiero di Marx si sovrappongano due dimensioni eterogenee e apparentemente inconciliabili: da un lato, egli diagnostica, con il piglio di uno scienziato, che il socialismo dovrà necessariamente esserci a seguito del crollo del capitalismo; dall'altro lato, poi, si spoglia della veste scientifica e si lascia trasportare dalla passione politica e dall'afflato morale, farcendo i suoi scritti di affermazioni moraleggianti, inneggiando alla rivoluzione e proclamando ingiusta, e pertanto da superare, la società capitalistica, ponendosi così in contrasto con la futura tesi di Weber secondo cui la scienza deve essere “ avalutativa ”. Ora, è evidente che se Marx ritenesse che ogni cosa proceda in modo rigidamente deterministico, senza spazio alcuno per la libertà umana, non inciterebbe il partito operaio a decidere, con uno slancio di libera volontà, di imbracciare i fucili e di abbattere il capitalismo, tanto più che quest’ultimo dovrebbe già, di per sé, crollare da solo. E Marx si sofferma molto sulla teoria del clinamen e sulle conseguenze che da essa scaturiscono: egli osserva amaramente che Lucrezio fu “ l’unico tra tutti gli antichi ad aver compreso la fisica epicurea ”; tutti gli altri (Cicerone e Plutarco soprattutto) l’hanno fraintesa. Nella sua tesi, Marx si sofferma anche sulla meteorologia di Epicuro e di Democrito, convinto che in essa appaia meglio che altrove “ il cuore della filosofia della natura di Epicuro ”: infatti è sul versante meteorologico che “ Epicuro si oppone alla prospettiva di tutto il popolo greco ”; la grande novità apportata dal filosofo del KhpoV , nella “Lettera a Pitocle”, risiede nell’aver rifiutato la tesi platonica e aristotelica secondo la quale tali eventi avverrebbero in vista di un fine e nell’aver respinto la possibilità che siano causati da una divinità. Non solo: come nota Marx, ” l'adorazione dei corpi celesti è un culto che tutti i filosofi greci celebrano ” in quanto in essi colgono la manifestazione più stupenda della razionalità, quasi come se nei corpi celesti vedessero proiettata la propria essenza razionale di uomini, cosicchè ” adoravano nei corpi celesti il loro proprio spirito ”. Epicuro, poi, ritiene che siano possibili molteplici spiegazioni per i fenomeni celesti: così per il sorgere e il tramontare degli astri, per le loro dimensioni, per il formarsi di tuoni, lampi, terremoti, venti e così via. Di questi fenomeni si possono fornire più spiegazioni che risultano tutte accettabili, purchè in accordo con i fenomeni e non smentibili da parte di altri fenomeni; viene così, ancora una volta, dimostrato inutile il timore che gli uomini nutrono per essi. Ogni spiegazione è accettabile, purchè rifugga dal mito e si resti saldamente ancorati all’apparenza sensibile: dal riconoscimento che per qualsiasi evento fisico, qualunque esso sia, esista una spiegazione razionale (proprio qui sta l’ “illuminismo” di Epicuro) scaturisce una tranquillità interiore irresistibile. Con questa interpretazione, Epicuro si accosta ancora una volta alla fisica moderna, la quale tende spesso a proporre una molteplicità di spiegazioni per un singolo evento: nel caso della luce, ad esempio, c’è stato chi l’ha intesa come fenomeno corpuscolare e chi invece come fenomeno ondulatorio. La fisica di Democrito, invece, che pure era molto raffinata per i suoi tempi, non presenta alcun rilievo filosofico. E’ curioso come, in un certo senso, anche Dante operi un confronto tra i due filosofi materialisti: il suo giudizio è più generoso, sulla linea della tradizione, nei confronti di Democrito, al quale riserva un posto tra gli “spiriti magni” sospesi nel limbo, pur rinfacciandogli di porre il mondo a caso, ovvero di aver espunto la causa finale. Per Epicuro, invece, il poeta fiorentino non ha pietà: i suoi discepoli, che “ l'anima col corpo morta fanno ”, sono condannati a patire, fino al giorno del giudizio universale, le sofferenze infernali. Se l'epicureismo si spense fu, infatti, soprattutto per via del cristianesimo, che aveva una concezione della vita diametralmente opposta, ma forse anche per il fatto che i pagani si appellarono più allo stoicismo e al platonismo che non alla filosofia epicurea. E così, per tutto il Medioevo, la teoria di Epicuro fu vista come eresia e Dante stesso sposa questa tesi. In realtà, già a Roma l’epicureismo era stato fortemente avversato dai più accesi sostenitori del “mos maiorum”: l’illustre figura di Cicerone, tanto poliedrica quanto legata alla tradizione, tuonò con irresistibile violenza contro la precettistica epicurea, nella quale scorgeva un’insidiosa minaccia ai danni delle istituzioni tradizionali sulle quali poggiava lo Stato romano. L'eclettismo ciceroniano, sempre pronto a prendere il meglio dalle più disparate concezioni filosofiche, mostra una chiusura radicale verso l'epicureismo: con un'illuminazione vivace e brillante, Cicerone arriva ad asserire, nel “De finibus bonorum et malorum”, che annoverare l' hdonh tra le virtù, come si propone di fare Epicuro, equivarrebbe a mettere una prostituta fra signore per bene. In particolare, poi, l’Arpinate condannava l’epicureismo per la sua teologia spericolata: Epicuro, infatti, pur ammettendo l’esistenza degli dèi, sostiene il loro totale disinteressamento per le vicende umane; del resto, egli nota, con un ragionamento di forte sapore aristotelico, come potrebbero gli dèi essere realtà beate se si occupassero di una realtà tanto inferiore quale è quella umana? Se poi gli dèi si occupassero del mondo, come si spiegherebbe il male che lo affligge? Si sarebbe costretti, in tal caso, a riconoscere che gli dèi non eliminano il male o perchè non possono o perchè non vogliono o perchè nè possono nè vogliono. Ma se non possono, allora sono impotenti; e se non vogliono sono invidiosi, ossia non sono divinità buone. Impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con la nozione di divinità; d'altra parte se possono e vogliono, come mai il male continua a essere presente nel mondo? L'unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste, allora, nel riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle faccende umane. Di fronte a questa concezione, Cicerone non poteva che bandire l’epicureismo come nemico della società romana, fondata sul rispetto e sulla devozione degli dèi: inoltre, abbattuta la possibilità del castigo divino, gli uomini non si sentono più costretti ad agire secondo giustizia e sono indotti a compiere azioni deplorevoli. Questo è, in sostanza, il motivo per cui Cicerone detesta cordialmente Epicuro e per cui, invece, Marx lo adora: il filosofo di Treviri, infatti, rivela già nella sua tesi di laurea quel rifiuto della religione che lo accompagnerà per tutta la vita e che troverà la sua massima espressione in alcune vivacissime pagine di “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”. La teologia e, più in generale, la religione, tanto care alla Destra hegeliana, devono arrendersi di fronte alla superiore saggezza della filosofia e della sua istanza critica, pronta a mettere in discussione ogni cosa: “ la filosofia, finchè una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: ‘empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi’. La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo - ‘detto francamente, io odio tutti gli dèi’ - è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana ”. L’avversione di Marx nei confronti della religione nasce dal clima generale che si respirava nei ritrovi della Sinistra hegeliana, sostenitrice della superiorità della filosofia sulla religione. Feuerbach stesso aveva smascherato la religione e il concetto di Dio, mettendo in luce come esso altro non fosse se non un’oggettivazione della coscienza umana, per cui “ tutto ciò che l’uomo mette in Dio, toglie a se stesso ”. Man mano che il suo pensiero maturerà e si smorzeranno le punte più estremistiche, Marx arriverà a sostenere che l'uomo sfruttato dal sistema capitalistico ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto ( “ la religione è il sospiro della creatura oppressa ”) e trova in essa, quasi come in una droga ( “ la religione è l’oppio del popolo ”), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive, nella speranza di un mondo migliore. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece crede Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l'uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare: “ la critica della religione disinganna 1’uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. ”. Non si tratta quindi di lottare contro la religione per far sì che, con essa, crolli anche lo sfruttamento materiale da cui l’uomo è avviluppato: viceversa, si tratta di far sì che svanisca lo sfruttamento sul piano materiale perché la religione non abbia più motivo di esistere e riaffiori la fiducia in quell’unico mondo esistente che è quello in cui viviamo. Questo, tuttavia, non toglie che “ la lotta contro la religione è , mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale ” e che “ eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale ”: in particolare, “ la critica della religione approda alla teoria che l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con 1’imperativo categorico di rovesciare tatti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole ”. In modo piuttosto simile, nel Novecento, Antonio Gramsci dirà espressamente che “ il comunismo è la religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch'esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale ”. Un po’ come sarà per Nietzsche, anche per Marx l’uomo prende il posto di Dio: il che sembrerebbe in aperto contrasto con la filosofia di Epicuro, per il quale, come abbiamo detto, gli dèi esistono. In realtà, Epicuro afferma che essi, nella loro perfezione e beatitudine, rappresentano per gli uomini un modello da imitare e a cui assimilarsi con quella che Platone aveva definito nel Teeteto l’ omoiwsiV qew ; in sostanza, se per Aristotele la divinità muoveva il mondo, per Epicuro essa muove gli uomini, che devono tentare di imitarla il più possibile. All’uomo è dunque concesso diventare un Dio, anche se per un breve periodo di tempo. Anche qualora gli uomini apprendano a vivere come gli dèi, ovvero senza turbamenti e in pace col mondo, resta tuttavia tra le due categorie una differenza imprescindibile: la vita degli dèi è eterna, quella umana è limitata. Ma, si domanda Epicuro, che importanza può avere per me se c’è la felicità quando io non ci sono più? Egli afferma, in una lettera alla madre: “ non é per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d' animo simile a quella degli dèi e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata, nonostante la nostra condizione mortale. Perchè, da vivi, possiamo godere di una felicità pari a quella degli dei anche se si sia ricevuta una diminuzione; ma se non si é in grado di sentire, in che modo si può ricevere una diminuzione? ”. La morte non rappresenta dunque un evento temibile: dal momento che l'uomo é un composto di atomi e vuoto, in quanto anche l'anima é costituita da un tipo particolare di atomi di forma sferica, la morte equivale alla pura e semplice disgregazione di questo composto; ma con essa viene meno ogni possibilità da parte dell'uomo di percepire questo evento, perchè la sensibilità é legata alla condizione di integrità di quel composto atomico che é l'uomo. Questo punto é compendiato da Epicuro nell'affermazione che “ la morte non va temuta, perchè quando ci siamo noi non c'é lei, e quando c'é lei non ci siamo noi ” . In modo molto efficace, Lucrezio dice che l' uomo, di fronte alla morte, deve ragionare in questi termini: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua. Come abbiamo visto, Cicerone e Marx danno un giudizio completamente antitetico di Epicuro per quel che concerne la sua prospettiva religiosa: eppure, paradossalmente, i due pensatori, l’uno accanito difensore della tradizione, l’altro intrepido pioniere assetato di innovazioni, si trovano a condividere l’avversione per il rifiuto epicureo della vita politica, intesa come una tempestosa fonte di turbamenti. La concezione atomica che Epicuro ha del mondo, nota infatti Marx, si riflette anche sulla sua concezione sociale e politica: lo scopo dell’agire umano è, per il filosofo greco, l’astrarsi, il ritirarsi dal dolore e dal turbamento; in quest’ottica, il bene è la fuga dal male, il piacere è il ritirarsi dalla pena; gli dèi stessi si ritirano e a contare davvero è l’ “autocoscienza individuale”, sganciata dal mondo e dall’esistenza, ma non per questo avversa all’amicizia. La filosofia di Marx, invece, si risolve in una filosofia politica, in un ibrido esplosivo che coniuga sapientemente l’economia, la storia e il pensiero filosofico: il motivo per cui egli accetta la politica e, anzi, si tuffa in tutto e per tutto in essa, è però il medesimo per cui Epicuro la respinge. Secondo il filosofo greco, per garantire la felicità al genere umano bisogna condurre un’esistenza appartata, lungi dalle burrascose attività politiche; secondo Marx, invece, per garantire la felicità al genere umano bisogna radicalmente cambiare lo stato di cose e, in questa prospettiva, la lotta politica assurge in primo piano, in quanto, se applicata congiuntamente alla riflessione filosofica, può cambiare il mondo: se quest’ultima, invece, resta una mera indagine metafisica del mondo e si avvita su problemi infinitamente lontani dalla vita, si limita a interpretare il mondo senza cambiarlo. E’ questa l’infamante accusa che Marx muove, nell’undicesima delle “Tesi su Feuerbach”, ai filosofi a lui precedenti. Se è vero che possiamo accostare Marx e Cicerone per il loro rifiuto dell’imperativo epicureo del “ laqe biwsaV ”, è altrettanto vero che essi nutrono due concezioni politiche diametralmente opposte: la differenza più lampante sta nel fatto che se Cicerone propone, forse anche un po’ ingenuamente, la retorica della “concordia omnium bonorum”, secondo cui tutti i cittadini onesti, indipendentemente dal ceto di appartenenza, dovrebbero collaborare con armonia per garantire il funzionamento dello Stato romano, Marx, dal canto suo, propugna apertamente la lotta di classe e arriva a leggerla come motore dello sviluppo storico. Si può notare come le concezioni filosofiche maturate nell’età ellenistica siano tutte generalmente avvolte da un alone di ottimismo, giacchè sono informate dalla convinzione di fondo che l’uomo possa raggiungere uno stato di equilibrio e di armonia interiore che gli permettano di condurre una vita felice: questo vale soprattutto per l’epicureismo che, con il suo tetrafarmakoV , si propone di garantire una felicità basata sull’assenza di dolore ( alupia ) e di turbamenti ( ataraxia ); e tuttavia le filosofie ellenistiche, se lette in trasparenza, appaiono come se venate da un profondo pessimismo di fondo che si cela sotto la maschera di ottimismo: esso è fondamentalmente dovuto, per quel che riguarda l’epicureismo, alla vertiginosa e angosciosa sensazione di finitudine dell’uomo, o, nel caso dello scetticismo, al crollo definitivo di ogni certezza; ma anche (e questo è un carattere comune a tutte le filosofie ellenistiche) alle mutate condizioni sociali e politiche: l’uomo greco dell’epoca, dopo le grandi conquiste di Alessandro Magno, si trova proiettato in un mondo senza confini e, dinanzi a questo universo sterminato e caotico, il cui baricentro non corrisponde più col rassicurante perimetro dell’ agora cittadina, egli prova un misto di fascino e sgomento, e se da un canto non può non sentirsi cittadino del mondo, dall’altro tende, anche per le mutate condizioni sociali e politiche, ad arroccarsi entro se stesso e a cercare nella propria interiorità l’equilibrio perduto; e per fare ciò, si vede costretto a sostituire agli antichi valori collettivi tipici della poliV , quelli più legati alla sfera individuale. In tal modo, cosmopolitismo e individualismo finiscono, paradossalmente, col coesistere in quanto manifestazioni ad un tempo opposte e complementari della stessa condizione spirituale: gli Stoici si proclamano a gran voce cittadini del mondo, Epicuro riconduce l’esistenza umana ad una sfera più genuinamente individuale e appartata, pur riconoscendo nell’amicizia il bene supremo. Sotto questo profilo, però, Marx appare incommensurabilmente più vicino alle posizioni stoiche, in quanto, com’egli stesso afferma nel “Manifesto del partito comunista”, “ gli operai non hanno patria ”: ci si trova infatti di fronte ad una prospettiva in cui l’operaio vede come suoi naturali alleati tutti gli altri uomini della sua stessa classe sociale, indipendentemente dalla nazione di appartenenza, mentre ravvisa il nemico nei possessori dei mezzi di produzione, senza curarsi della loro nazione di origine. E’ interessante il fatto che il filosofo tedesco di ispirazione marxista Herbert Marcuse insista sul tema della felicità personale di marca epicurea e ne sottolinei l'incompatibilità con il lavoro, come testimonia l'esistenza stessa del proletariato: nella condizione storica attuale la felicità è irraggiungibile, ma questa società non è eterna. L' edonismo epicureo, con la sua rivendicazione del piacere, contiene un'istanza critica contro di essa, ma privilegiando il punto di vista dell'individuo isolato, non è in grado di tradursi in un progetto di trasformazione dei materiali di esistenza. L’acceso pessimismo che pervade, sebbene con sfumature diverse, tutte le filosofie ellenistiche, è stato colto con grande acutezza da Kant: egli fa notare, nella “Critica della ragion pratica”, come intercorra una costante conflittualità tra il perseguimento della felicità e il perseguimento del dovere; la soluzione fornita dalle filosofie ellenistiche a questo dilemma è “analitico”, ovvero sostiene che la felicità e la virtù sono la stessa cosa e che l'una deriva analiticamente dall'altra, come dal concetto di triangolo deriva il fatto che esso abbia tre lati. Di questo stampo sono, appunto, la filosofia epicurea (la virtù come ricerca intelligente del piacere) e quella stoica (la felicità come coscienza della virtù), che si fondano sulla convinzione che è lo stesso perseguimento della virtù e del piacere a dare la felicità. Kant mette in evidenza come questa soluzione sia il frutto di un esasperato ottimismo tipicamente ellenistico, in quanto la virtù e la felicità sono due cose radicalmente diverse che quasi si escludono a vicenda. In conclusione, possiamo riscontrare come, nel corso della storia, sia la filosofia epicurea sia quella marxiana siano andate incontro a colossali fraintendimenti, talvolta inavvertiti talvolta coscientemente voluti: da Cicerone fino all’inizio del Rinascimento, grazie alla riscoperta che ne ha fatto il Valla, la filosofia epicurea è spesso stata erroneamente letta come una sfrenata ed efferata ricerca dei piaceri fisici, quando in realtà Epicuro stesso aveva detto, nella “Lettera a Meneceo”, che per “ricerca dei piaceri” si doveva essenzialmente intendere la ricerca dell’assenza di dolore. In modo simile, la Rivoluzione russa e molte altre esperienze nate sull’onda della dottrina marxiana, ne hanno dato un’interpretazione scorretta e, spesso, antitetica, forse anche dovuta alle mutate condizioni socio-economiche rispetto a quelle dell’Ottocento: la più fulgida prova di ciò sta nel mai avvenuto passaggio dalla fase di “dittatura del proletariato” alla fase di “anarchia”, autentico obiettivo del marxismo. Del resto, sia l’epicureismo sia il marxismo sono andati incontro, dopo l’elaborazione originaria dei due fondatori, a nuove interpretazioni che spesso li hanno stravolti nell’essenza o, comunque, li hanno colorati di sfumature nuove: questo fa sì che sia il marxismo sia l’epicureismo possano in qualche maniera essere definite filosofie in fieri , in divenire continuo. Per quel che riguarda la filosofia di Epicuro, l’interpretazione forse più originale ma, al contempo, più distante dal pensiero del filosofo ellenistico, fu data nel Seicento dal sacerdote francese Gassendi, il quale superò per tale via le aporie del sistema cartesiano all’epoca imperante: coniugando abilmente l’epicureismo e il cristianesimo, egli sostenne che gli atomi fossero una creazione diretta di Dio e che, proprio per questo, la natura ha un carattere finalistico e l’anima dell’uomo è immortale. Sul versante marxista, il pensatore tedesco Marcuse, di fronte al fallimento novecentesco delle previsioni di Marx, apportò notevoli modifiche teoriche alla dottrina originaria, suggerendo, ad esempio, che se è vero che nel Novecento lo scontro di classe sembra essere sfumato nel mondo occidentale, è altrettanto vero che tale scontro non si è dileguato, ma si è semplicemente spostato su un nuovo fronte: la nuova lotta è combattuta tra Paesi capitalisti del mondo occidentale e Paesi sfruttati del “terzo mondo”, con l’inevitabile conseguenza che anche gli operai del mondo occidentale finiscono per essere sfruttatori del “terzo mondo”, in quanto anch’essi siedono al banchetto dei capitalisti, pur accontentandosi delle sole briciole.
Luglio 2002


Quella che avete appena letto è la tesina con cui Diego Fusaro ha conseguito la maturità classica nel 2002 con il risultato di 100/100 più una menzione speciale per gli eccellenti esami.