Voglio parlare di una sentenza di Epicuro che recita: «vivi nascosto», alla lettera vivi nascostamente.
In greco suona così: láthe biósas. Lanthano significa nascondersi, e láthe è un avverbio, che significa nascostamente. Da lanthano vengono il verbo latino latere, l’italiano latitante, latente, l’espressione in senso lato, cioè alla lontana. Il verbo biósas, qui coniugato alla seconda persona singolare, vivi, ha una radice più familiare. La stessa di biologia e biologico: bios in greco è vita. Perché Epicuro ci dice di vivere nascosti, quando nella Grecia classica, al tempo di Socrate e Platone, i cittadini mangiavano in mense comuni, si allenavano insieme nei ginnasi, e discutevano di politica ad alta voce in piazza? Perché, se per un greco la vita fuori dalla polis era inconcepibile, Epicuro, invece, teneva lezione in un giardino, lontano dalla vita pubblica, al riparo dalla politica e dagli affari?
Semplicemente perché la polis, che fino ad Aristotele aveva rappresentato tutto l’universo morale di un cittadino greco, al tempo di Epicuro è una realtà ormai svuotata di ogni significato. Un valore è tale fino a ché una comunità lo ritiene tale. Mi spiego. Nella polis di Socrate, le leggi di Atene sono tutto. Socrate, piuttosto che trasgredirle, è disposto a bere la cicuta al termine del suo drammatico processo. Rifiuta l’esilio, rifiuta una multa in denaro (patteggiare sarebbe ammissione di colpevolezza) ed accetta serenamente la morte, perché le leggi di Atene lo hanno educato ed allevato: sono il sangue del suo stesso sangue. Fuggire per evitare la pena che la giuria gli ha inflitto sarebbe come negare le leggi della sua città proprio all’ultimo, dopo averle invece difese per settant’anni. Quando mi facevano leggere l’Apologia di Socrate, davvero non riuscivo a comprendere come l’amore per una città e per le sue istituzioni potesse valere, per Socrate, più della sua stessa vita. La mia ignoranza godeva della illustre compagnia di molti altri filosofi che hanno rifiutato di accettare la morte di Socrate e che hanno parlato, attenzione, di suicidio. Poi passano gli anni, e la vita acquista un altro significato. Si comprende fino in fondo quella massima socratica che recita: una vita senza ricerca, non è degna di essere vissuta.
Quando nacque Epicuro, pochi anni sono passati dall’esecuzione dell’illustre ateniese Socrate (nemmeno sessant’anni), ma la situazione politica è rovesciata. I cittadini della polis sono ora sudditi di un impero che si estende su tutto il Mediterraneo orientale e su parte del continente asiatico, e nessuno pensa che la legge di Atene sia da intendere metaforicamente come una nutrice dalla quale attingere i valori della nostra vita morale. Eppure Epicuro, grazie alla discendenza paterna, era cittadino ateniese, proprio come Socrate, ma quale abisso in quei sessant’anni che lo separavano dal gallo sacrificato in nome di Asclepio. Paradossalmente, per poter vivere una vita degna, e dedicarsi alla ricerca, Epicuro sente di dover smettere di lottare contro un mondo in cui gli ingranaggi che muovono le cose sono molto più grandi di noi. I nuovi valori di Epicuro sono i valori dell’anima, che nessuna istituzione esteriore potrà mai far vacillare. La nuova comunità all’interno della quale vivere questi valori è il Giardino, dove tutti coltivano l’amicizia reciproca.
Ammiravo Epicuro, ed ero affascinato da questa frase… láthe biósas, vivi nascosto. Certo, era quella la risposta che mi sembrava più adatta negli anni in cui frequentavo il liceo. Sulla soglia di casa scioperi, autogestioni, manifestazioni, tangenti e arresti; sui giornali si leggeva dei bombardamenti su Tripoli e Bengasi, del crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, della Guerra in Iraq. Cosa c’entravo io con tutto quello che stava succedendo? Vivi nascosto, ripetevo a me stesso, gli anni ottanta son finiti, che gli anni novanta passino, e che possibilmente non lascino nessun segno.
Adesso penso esattamente il contrario. Il Giardino di Epicuro dev’essere nelle città, nelle piazze, nelle stazioni, là dove si incrociano le linee metropolitane. Deve essere sulla linea dell’orizzonte, sempre in primo piano, sempre davanti agli occhi di tutti, affinché il vivere nascosto di chi non ha nulla da nascondere e nulla di cui vergognarsi costituisca per chi vede da fuori il Giardino l’esempio e la regola, il modello. La solitudine, l’incomprensione, l’estraniamento, l’anonimato più assoluto delle nostre città di provincia, si vincono solo se le porte del Giardino verranno aperte e se quei valori del maestro antico illumineranno la strada da seguire.
di Sandro Borzoni